Dis-accordi a sinistra: un dialogo tra Rossana Rossanda e Fausto Bertinotti

24/5/2001 – 20:30 Dis-accordi a sinistra: un dialogo tra Rossana Rossanda e Fausto Bertinotti


Caro Fausto,


non mi convincete. Vi ho capito, ma non mi avete persuaso nella decisione di presentarvi dovunque al Senato e nel giubilo per l´esito delle elezioni. Vi ho capito perché dall´altra parte non c´era l´intenzione di arrivare a un minimo di accordo, e grossa è stata la provocazione delle liste civetta. Ma è vero che presentare i candidati vostri al Senato ha significato consegnare la maggioranza assoluta dei seggi a Berlusconi, oltre a quelli della Camera. Questo gli permetterà di procedere, se gli gira, anche a modifiche costituzionali. La colpa della sconfitta è del centrosinistra, certo che lo è, ma questa perdita specifica investe, a differenza delle altre, anche la vostra responsabilità. Soprattutto non obiettatemi: che sarà mai, qualche seggio di più o di meno. Oppure che una maggioranza così schiacciante è un bene, perché uccide nell´uovo qualsiasi velleità consociativa che ai ds restasse. Se delle istituzioni non vi interessa, perché non siete una forza extraparlamentare?


Sono fra coloro che hanno condiviso la vostra scelta di rompere nel 1998 con il governo Prodi, quando Prodi e D´Alema, raggiunto il risanamento e l´euro, non hanno mantenuto l´impegno di rimettere al centro le questioni del lavoro e dello sviluppo: quello era un mutamento di rotta, una stretta liberista che non stava nei patti del 1996 e dovevate non starci. Del resto, tre mesi dopo sarebbero andati alla guerra contro la Jugoslavia. Questa è invece una questione di tattica o di prestigio messi al di sopra del risultato istituzionale: non diciamo, per favore, di identità. Non siete così fragili.


Non ci tornerei se non pensassi che alle spalle c´è un errore – come negli e-mail che arrivano a *Liberazione* e al *manifesto* – che consiste nel mettere nelle Camere di più e di meno di quel che esse sono. Di più perché non è il Parlamento il luogo di un´alternativa radicale; di meno perché è invece il luogo delle garanzie politiche basilari del conflitto. Non è uno degli insegnamenti del Novecento? Dalla vostra presenza io mi aspetto, come molti, che su questo punto vi assumiate autonomamente le responsabilità anche dove altri sono irresponsabili.


*C*osì se capisco il sollievo di essere usciti vivi da una prova nella quale qualcuno vi voleva morti, non per questo il vostro giudizio sull´esito elettorale può essere positivo. Le elezioni sono andate male. Non solo perché gli italiani non hanno fatto quel passo in più che avrebbe impedito lo scattare di moltiplicatori catastrofici a favore di Berlusconi, ma perché la crisi più clamorosa è quella dei Ds, e di essa nulla – questo è il punto – avete recuperato. Anzi rispetto al 1996 avete anche voi perduto oltre un milione di voti. Perché? Perché non rappresentate uno sbocco allo sfaldamento dell´ex-bacino del Pci? Non è diverso da quel che mi chiedo per il *manifesto*: com´è che l´*Unità* apre e chiude, e noi vendiamo tale e quale lo stesso numero di copie? Ci risponderemo che il 95 per cento degli italiani sono ormai liberisti, ultracapitalisti, venduti? Moretti non è un sintomo di cui tener conto, ma un intellettuale parassita e cialtrone cui dedicare pagine su pagine di vendetta? Saremmo non solo sciocchi, ma perduti.


Considero Bertinotti un leader nazionale, l´esistenza di Rc un punto di partenza decisivo nelle sue scelte. Per questo vorrei a voi avanzare una domanda. Berlusconi è stato votato non per sbaglio ma perché si è proposto come il seguace di Thatcher e Reagan in Italia. Gli italiani non sono sciocchi, metà di essi – non tutti imprenditori o possidenti – ha votato per l´impresa, per la riduzione dei diritti del lavoro, per la consegna ai privati di quel che resta del patrimonio e dei mezzi di pubblico intervento, per la competitività, sperando che sia un motore più forte ed efficace che in passato, delusi dal socialismo di cui nessuno li ha aiutati a capire né i fini né la fine, disposti a pagare un prezzo per un´ambizione ormai privata, « particulare », più alta e diffidenti per tutto ciò che è « pubblico » e « stato » (dove anche noi siamo timidamente arretrati), rassegnati che il mercato diventi il regolatore sociale.


A questa spinta, nata anche da una delusione e mancanza di prospettiva, abbiamo opposto: ma c´è il conflitto di interessi, ci sono le pendenze processuali, c´è la questione morale e da ultimo, ci sono i salari dei metalmeccanici. Non è bastato. La più grande sinistra occidentale non è riuscita in nessuna delle sue parti a dimostrare che non è vero che *There Is No Alternative*, non c´è alternativa, che la supremazia dell´impresa e del mercato non è fatale, che non domani e altrove ma oggi e qui una maggioranza delle sinistre radicali, e anche moderate, sarebbe in grado di opporvi un argine e far decollare un diverso processo di sviluppo. Leggo che abbiamo perduto il 30 per cento delle risorse umane più preparate, che il 60 per cento delle imprese medio-alte è sotto controllo internazionale: non lo abbiamo impedito, coalizzando chi perdeva il lavoro con chi lo vedeva precarizzato, i metalmeccanici che non mollano col magma degli atipici, gli studenti in letargo, gli insegnanti fra l´incudine di Berlinguer e il martello di Berlusconi. Il minimo che possiamo dire è che non siamo riusciti a mostrare chiara la posta in gioco, e dove ci siamo riusciti non abbiamo saputo dare anche la fiducia che la partita non è chiusa e si può fare altro. Il Polo non ha spuntato un voto di più del 1996, eppure non abbiamo innescato neanche l´inizio della lunga marcia fra coloro che alle sue lusinghe hanno resistito.


Fra qualche giorno il grande bacino dei Ds, in gran parte provenienti dall´ex Pci, andrà alla resa dei conti. D´Alema e Amato presenteranno il progetto d´un partito alla Blair, una Margherita laica e nulla più. Non ci interessa orientare i milioni del “popolo di sinistra”, che è fatto anche di lavoratori, che rilutteranno, che hanno perduto la fiducia nei loro gruppi dirigenti? Li ascolteremo o ne stigmatizzeremo l´immaturità, la timidezza, il non capirci, insomma, il non essere bravi come noi? Come li coinvolgiamo? Che cosa offrite loro, che cosa chiedete? Non è questo che dovremmo chiederci tutti?


A meno che Rifondazione si proponga, diversamente da come si era pensata, come veicolo attento ma transitorio delle effervescenze che la globalizzazione produce, crepe autentiche o più spesso simboliche che si aprono nellà società totalizzante. Io non ne sottovaluto il segnale ma, come sapete, non considero questa una strategia anticapitalistica incisiva. Proprio perché la globalizzazione ha queste dimensioni e una specifica capacità di integrare e di escludere, occorre che sia contrastata da una « massa critica » come quantità, sapere e anche, sì, organizzazione. Lo riconosce anche Pierre Bourdieu. Se no – certo, meglio che niente – sfileremo a Nizza, a Napoli, a Genova, la polizia provocherà e avanti fino al prossimo appuntamento.


Vorrei essermi fatta capire, e che mi si rispondesse. Come amava ricordare Fortini: *batti (proprio nel senso di picchia!) ma ascolta*.


Rossana Rossanda




La risposta di Fausto Bertinotti


Cara Rossana,


considero questa tua lettera scritta dall’“interno” un’occasione che ci offri per proseguire anche con maggiore radicalità e rigore l’approfondimento su cui siamo impegnati dopo il voto e per sviluppare un confronto su questioni che considero rilevanti per il nostro comune futuro. Mi avvarrò dunque anch’io del “batti ma ascolta” di Fortini che tu citi. Ti ho ascoltata con attenzione, credo di aver capito ma, questa volta, proprio non sono d’accordo.


Primo: il voto al Prc. Un risultato importante e una ragione di soddisfazione politica.


Potevamo essere annientati, tu riconosci che c’era chi ci voleva morti. Di più. Noi stessi abbiamo sottovalutato, nell’asprezza e nella difficoltà della campagna elettorale e di fronte ai consensi nuovi che raccoglievamo, la forza distruttrice di un regime bipolare che ha lavorato a cancellare dalle istituzioni tutto ciò che sta fuori da esso. Difatti tutti, anche forze rilevanti per storie, mezzi e visibilità, sono stati cancellati. Tutti tranne noi. Perché ce l’abbiamo fatta? Non per aver conservato uno “zoccolo duro”, non è questa la caratteristica del voto al Prc, ma per aver guadagnato, in controtendenza, un consenso attorno ad una diversità, ad una alterità. Ce l’abbiamo fatta perché è stata raccolta l’idea, ancora approssimativa ma realmente proposta, di un’altra politica sia per profilo di contenuti, che per rapporto con la società, che per critica alle asfissianti tendenze di regime. Il voto al Prc non è, prevalentemente, l’eredità di uno zoccolo duro, è, in nuce il voto di un’area, se ci intendiamo sul termine, antagonista, di critica all’esistente. Dunque il voto al Prc non è solo importante perché lo fa vivere, ma anche perché è una promessa. Ma tu chiedi: perché non rappresentate uno sbocco allo sfaldamento dell’ex bacino di voti del PciI? Perché non è possibile ancora. Quel mondo è stato disfatto; le sue culture, i suoi luoghi, le sue organizzazioni, il suo popolo sono stati scompaginati dalla sconfitta, dall’autodissoluzione e dalla rivoluzione capitalistica, quando non sono trattenuti da una antica fedeltà in ciò che pure non li rappresenta ormai più. Non è neppure immaginabile di traghettarne, così come sono, parti cospicue al di qua del fiume. L’obiettivo può, anzi deve, essere perseguito. Ma il processo non è quello meccanico della calamita, bensì quello complesso della ricostruzione, della scomposizione (di culture, di modi di essere, di consuetudini, di modi di pensare, di relazioni sociali) e della ricomposizione. Per questo, ad esempio, siamo stati così testardi nel proporre, insieme, la crescita del Prc e la costruzione, con la sua presenza importante ma per nulla esclusiva, di un soggetto politico forte di tutta la sinistra alternativa. Per questo teniamo aperta la proposta della sinistra plurale malgrado e oltre ogni rifiuto. La nostra consegna è di fare “come se”, per poter perseguire uno obiettivo oggi impossibile e tuttavia necessario. C’è il tempo della semina e quello del raccolto.


Oggi, dopo la devastazione (quella degli ultimi vent’anni a cui abbiamo cercato di resistere), è il tempo della semina.


Secondo: la vittoria delle destre e il comportamento elettorale del Prc.


La vittoria delle destre non affonda le sue radici nella campagna elettorale bensì nei cinque anni del governo di centro-sinistra e, in particolare, nel corso disastroso preso dopo la rottura con la stretta liberista avviata nel 1998 e drammatizzato dalla guerra. La vittoria delle destre è, in senso stretto, la sconfitta del centro-sinistra. Ogni discorso di tattica elettorale, se salta questo ostacolo, risulta infondato.


Se il Prc avesse scelto una diversa tattica elettorale, non avrebbe avuto questo risultato e dubito che lo stesso centro-sinistra avrebbe guadagnato quei voti che ha avuto nei collegi uninominali. Non è possibile fare una somma astratta di voti che esprimono diverse intenzioni politiche perché le persone che li esprimono, quelle concrete, in carne, sangue e sentimenti, non sono disposte a sommarsi oppure sono dispose a farlo solo a certe condizioni e non ad altre. Naturalmente, come abbiamo sempre detto una qualche maggiore apertura sarebbe stata possibile al Senato se il centro-sinistra avesse compiuto qualche atto politico significativo nei confronti del Prc e della sua politica. Senza questo sarebbe stato, io credo, un errore grave: sarebbe stato l’occultamento delle cause su cui poggiava l’ascesa della destra e, con esso, l’impossibilità di rendere comprensibile e visibile l’irriducibilità del Prc al centro-sinistra. Questa, a mio avviso, è la questione cruciale. La vittoria delle destre è il Male, tra noi su questo non c’è mai stato dubbio o discussione ma, io credo la vittoria del centro-sinistra non sarebbe stato il Bene. Un conto è concorrere a sconfiggere le destre, altro è impegnarsi a far vincere il centro-sinistra. La differenza è sottile e difficile da trovare nella tattica elettorale, ma è politicamente enorme. Per fortuna l’abbiamo trovata con la non belligeranza nella tattica elettorale, e così resta aperta nella politica. Abbiamo, in primo luogo, chiesto un voto al Prc per indicare una prospettiva diversa entro cui far vivere anche una presenza autonoma nelle istituzioni e abbiamo liberato, dov’era compatibile con questa priorità, uno spazio, nell’uninominale alla Camera, che contemplasse la possibilità per l’elettore di votare anche per il centro-sinistra. Perché non abbiamo invitato, come partito, a votare lì per il centro-sinistra e perché non abbiamo rinunciato a presentarci al Senato? Perchè avremmo così varcato quella soglia critica che io ritengo fondativa della ragione d’essere di una sinistra critica, cioè avremmo sostenuto il centro-sinistra e lo avremmo consolidato nella sua scelta di continuare ad essere quello che è, cioè una realtà di conservazione. Il centro-sinistra ha un’idea proprietaria del voto, del voto che non sia di destra, naturalmente, che non può essere incoraggiata se non a prezzo di incoraggiare le pulsioni di regime che lo hanno così profondamente attraversato. Quella nostra dei giorni scorsi non è stata la critica ad una intellettualità, ma proprio a questa propensione proprietaria. La critica agli apparati ideologici di consenso (pensiero unico) al formarsi attorno alla cattedrale del governo (e della ideologia della governabilità) di un ceto professionale e intellettuale interno allo scambio fra valorizzazione della propria prestazione e organizzazione del consenso, è l’altra faccia di una critica alla separatezza della politica che ha quale base l’autonomia del conflitto sociale dei movimenti e delle culture critiche. Una parte dell’intellettualità che ha fatto appello a votare per il Prc è stata attratta proprio da questa nostra critica al regime bipolare e attraverso questo nuovo spirito repubblicano si è disposta favorevolmente ad intendere le ragioni della critica sociale. La scelta del male minore, quale che sia il campo della contesa, risulterebbe incompatibile con questo faticoso processo di crescita e di tessitura e, io credo, con il futuro di una sinistra di alternativa.


Aggiungo, come semplice postilla: io non credo che sarebbe stato comunque possibile raggiungere il pareggio, cioè bilanciare la vittoria della destra alla Camera con quella del centro-sinistra al Senato, ma questo sarebbe stato un risultato auspicabile? Francamente non mi pare, non vedo quale vantaggio avrebbe avuto il paese da una poderosa accentuazione della propensione concertativa, della vocazione alla grande intesa, della pressione verso un’intesa politica bipartisan che per quella via avrebbe preso corpo.


La vittoria delle destre è una regressione politica forte e contiene il rischio grave di un arretramento di civiltà (anche perché il centro-sinistra ne ha aperte parecchie di piste di lancio) ma piuttosto che l’eclisse dello scontro politico meglio la regola democratica di una maggioranza che governa e di una minoranza che fa opposizione. Il problema, ora, è quale opposizione.


Le prime intenzioni da dentro il centrosinistra e anche dai Ds non sembrano incoraggianti, rivolte come sono ad assecondare propensioni neocentriste. Vorrei che fra noi il confronto partisse per affrontare il “che fare” da una analisi di fase. Ci aiuta il confronto con il ’96. Allora la desistenza tra il centro-sinistra e il Prc sconfisse, nella sfera della politica, Berlusconi, ma nella società la presa della conservazione era implacabile, come la tregua sociale. Oggi le destre vincono le elezioni, ma la società è attraversata da un disgelo, da una crescita dei movimenti che è fenomeno europeo e mondiale. Non affido loro alcuna missione salvifica, ma il vento sta cominciando a cambiare direzione. La globalizzazione capitalista e persino l’economia che essa ha alimentato rifanno i conti con la categoria della crisi. Se si guardano le cose da questo punto di vista la destra appare meno invincibile e la nostra politica è interrogata sul suo punto chiave, cioè come si raggiunge quella che tu chiami, e io con te, la massa critica necessaria per contrastare la globalizzazione e costruire l’alternativa. Non c’è più la possibilità di separare presente e futuro, né nella società né nella politica. E’ morta, se mai è esistita, l’autonomia del politico. La connessione tra movimenti e progetti, tra conflitto sociale e programma, tra lotta, produzione culturale e rappresentanza istituzionale si fa strettissima. Perciò abbiamo fatto quella scelta elettorale e non un’altra. Non era solo una questione di tattica.


Terzo: la questione delle istituzioni.


Ovviamente non è che non ci interessano, vista la fatica e il lavoro politico che mettiamo per guadagnare una rappresentanza nelle istituzioni e l’impegno che vi prodighiamo e persino l’attenzione e l’interesse all’apertura di ogni possibilità di intesa e di alleanza per dare efficacia all’azione politica.


Temo invece che abbiamo un dissenso sulle loro condizioni e, dunque, su come ci si debba rapportare ad esse. Io penso che noi viviamo una crisi della democrazia connessa ad una crisi della politica. La crisi della democrazia è il prodotto di una processo che rischia di stritolarla prendendola in una morsa dall’alto e dal basso. Quando tu dici che metà degli italiani ha votato per le ragioni dell’impresa e per la riduzione dei diritti del lavoro, delusa dal socialismo e privata di una prospettiva dici una cosa che va riflettuta e discussa. Non è qui il caso di richiamare la tua attenzione sulla nostra replica che pure è stata assai diversa da come tu la descrivi. Altro è l’essenziale. L’essenziale è la rottura del blocco sociale della sinistra e della cultura critica anticapitalista che ne ha accompagnato la crescita. Qui c’è l’origine della crisi della democrazia. Il voto per il versante che ci riguarda, non è stato tanto determinato dall’adesione alle tesi dell’impresa quanto la manifestazione di questa rottura. Su un altro terreno è questione parallela a quella della nostra non intercettazione del voto ex-Pci. Quando una diga si rompe l’acqua va da ogni parte. Altrimenti come spieghi il voto alla Lega dell’iscritto alla Fiom di Brescia? Dopo una delle più straordinarie pagine di lotta proletaria durante la quale tutto apparve agli scioperanti possibile, nell’Inghilterra del secolo scorso, si ebbe dopo la drammatica sconfitta, la forse più grande adesione volontaria alla guerra da parte di lavoratori. Erano forse diventati guerrafondai? No, avevano perso ed era stata distrutta la loro identità. Solo dalla comprensione delle ragioni della sconfitta e dalla ricostruzione dell’identità delle classi subalterne, io credo, ricominci il cammino dalla fuoriuscita dalla crisi della politica e della democrazia.


Ma c’è pure l’aggressione dall’alto. Nei giorni scorsi, a Torino, hanno chiesto a Ralph Darhendorf se in Italia fosse in pericolo la democrazia. L’intellettuale liberale ha risposto di sì ma per la ragione che i processi di globalizzazione spostano le sedi decisionali dai parlamenti a luoghi altri senza sovranità. Cara Rossana, io penso che il Parlamento non sia più “il luogo delle garanzie politiche”. Intendiamoci, lo è stato e lo può, in altre forme, tornare ad essere. Ma oggi non lo è. Lì neppure si decide sulla guerra; prima la fanno e poi la discutono. La crisi della democrazia è anche una poderosa ricollocazione e redistribuzione dei poteri, perciò sarebbe inefficace alzare la bandiera della difesa delle istituzioni. Difenderemmo non la democrazia, ma un suo simulacro, lontani dalle realtà e spiazzati dalla riorganizzazione dei poteri operata dalla rivoluzione capitalistica. La democrazia di massa va ricostruita per essere riconquistata. Si propone perciò la ricerca di un nesso tra la presenza nelle istituzioni, la riforma della politica e la produzione di alternativa. Questo è il senso della nostra ricerca. Per questo siamo così interessati anche ad esperienze lontane nello spazio ma contigue a questa ricerca. Per questo ci interessa così tanto Porto Alegre; perché parla un linguaggio universale, perciò anche quello di questa nostra provincia.


La presenza nelle istituzioni rappresentative fatica a trovare, oggi, un senso in se, quale che esso sia, compreso quello di garanzia. Lo acquista, invece, se indaga proprio il lato che esse tendono ad oscurare ma che, specie nei momenti di crisi della democrazia, è il solo che le possa rivitalizzare: quello degli istituti della democrazia diretta. Anche questo, cara Rossana è un insegnamento del Novecento e, io credo, di quelli a noi più vicino e destinato a sopravvivere ad esso.


Fausto Bertinotti